la settima base

Con Songs Of A Lost World i Cure ritrovano il suono perduto

– di Gianmarco Caselli –   Finalmente è arrivato. Dopo ben sedici anni e annunci disattesi sull’uscita di uno o addirittura più album, il primo novembre i fan di The Cure hanno potuto ascoltare il nuovo lavoro della band, Songs of a Lost World. L’attesa è stata lunghissima e, quando è stato chiaro che stavolta l’album sarebbe veramente uscito, piena di grandi aspettative. Aspettative alte, altissime, soprattutto dopo che è stato diffuso Alone, il primo singolo, che ha fatto sognare ai fan un altro lavoro alla pari di Disintegration (1989), forse l’album capolavoro della band. Lo stesso Robert Smith vi ha fatto riferimento affermando che voleva ricreare un’atmosfera come in Pornography (1982) e Disintegration.   Diciamo subito che il confronto comunque non regge, Disintegration è e resta irraggiungibile, ma la qualità di Songs of a Lost World cresce ad ogni ascolto e si riallaccia all’album del 1989 per tanti versi: per i testi, per le sonorità e per l’atmosfera generale, e di certo è un gran bell’album: il nostro voto è 9. Consigliamo un ascolto in cuffia o a volume alto con un buon impianto per godere appieno non solo della voce – notevole per l’età – di Smith in ottima forma, ma anche della raffinata ricerca dei suoni che costellano questo album. Vi perdereste degli elementi che fanno comprendere quanto questa opera sia veramente ricercata e complessa, perfetta nel creare un amalgama sonoro che ci avvolga nelle sue spire.   Se si considera poi che dopo le punte toccate dalla band con il già nominato Disintegration (1989) e Wish (1992) gli album successivi (su tutti Wild mood swings del 1996) non sono stati da ricordare, con l’eccezione di Bloodflowers (2000), Songs of a Lost World è una vera e propria boccata di ossigeno per i fan. Ad affiancare Robert Smith sono il fedele Simon Gallup al basso, Roger O’Donnel alle tastiere, Reeves Gabrels alla chitarra e Jason Copper alla batteria.   Songs of a Lost World è per certi versi una summa matura delle punte toccate dalla band fra fine anni ’80 e inizio anni ’90 che ci immerge nel decadentismo imperante dei nostri tempi. Robert Smith e soci hanno infatti voluto non solo riprendere quelle sonorità, ma anche attualizzarle e realizzare un album sincero, senza strizzare l’occhio alle dinamiche del marketing con inserimenti di brani facili e commerciali: si è capito subito dal primo ascolto della intro strumentale del brano di apertura Alone, lunghissima per i canoni musicali del nostro tempo. Proseguendo con l’ascolto godetevi l’apertura armonica di And nothing is forever e lasciatevi cullare da A fragile thing, brano che difficilmente vi toglierete dalla testa. Warsong e Drone:Nodrone invece ci portano improvvisamente in atmosfere più dure che ricordano quelle di Wish. È I can never say goodbye che di nuovo ci proietta nella dimensione onirica prevalente dell’album, mentre la successiva All I ever am ci coinvolge subito con una base ritmica trascinante che  fa venire voglia di non uscire mai da questo disco di cui ci sembra di far parte. Chiude l’album una epica Endsong di ben dieci minuti, devastante per intensità e che chiude il cerchio aperto con Alone.   Le sonorità sono dense ma fresche, non danno assolutamente l’idea di ricalcare qualcosa di già fatto, e danno all’album energia e coerenza. Tutti i brani sono notevolmente ispirati (di mezzo ci sono la perdita dei genitori, del fratello e l’incombere dell’età) e si muovono in atmosfere dark rischiarate da luce lunare che rende il tutto sognante, non opprimente. Una luce lunare rischiara le tenebre dei testi: il disco si doveva intitolare Live from The Moon  e Endsong è stata scritta anche pensando ai cinquanta anni dello sbarco dell’uomo sulla luna. And I’m outside in the dark / Staring at the blood red moon, sono i primi versi del brano conclusivo dell’album.   Songs of a Lost World è un album armonico, non ci sono brani che stridono, tutto fila via con un’atmosfera irreale. I Cure hanno ricreato un mondo sonoro musicale perduto a cui essi in primis avevano dato un sound unico attualizzandolo con uno nuovo che riflette il mondo attuale.   Difficile scegliere quali edizioni comprare: oltre alle versioni standard si può optare per la doppia cassetta che oltre all’album “normale” offre i brani esclusivamente strumentali, o per il triplo cd che, oltre al cd standard propone un dvd blu ray e uno con le versioni strumentali; se andiamo sul vinile possiamo scegliere il doppio vinile half-speed da 180 gr oppure quello bianco, sempre da 180 gr, o quello color marmo. A voi l’ardua scelta. Per la cronaca Smith ha parlato anche di un nuovo album in lavorazione virtualmente finito, e che potrebbe arrivare anche un terzo disco. Ma intanto godiamoci questo.      

CCCP Felicitazioni: il punk non è morto!

– di Gianmarco Caselli – Ultimissimi giorni per visitare la grande mostra “FELICITAZIONI! CCCP – Fedeli alla linea. 1984 – 2024” allestita ai Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia: la mostra ha superato le 25.000 presenze nei primi tre mesi di apertura e la chiusura è stata prorogata al 10 marzo.   Una mostra che va in parallelo con il ritorno sulle scene dello storico gruppo punk emiliano. Una reunion che ha subito registrato il sold out con tre date a Berlino e che presto arriverà sui palchi italiani. Un ritorno che sembrava impensabile fino a che non sono apparsi i primi rumors nel 2022, anche se lo stesso Massimo Zamboni, al Lucca Capannori Underground Festival 2022 di cui era uno degli ospiti di punta, non si era allora pronunciato.     Della mostra si è detto e scritto di tutto e di più ma vi consigliamo vivamente, se non siete ancora andati a visitarla, di affrettarvi e farvi la vostra personale idea di questo viaggio che sicuramente sarà anche un po’ il vostro personale viaggio nell’universo musicale, ideologico e culturale che forse avete vissuto in quegli anni insieme alla band icona del punk italiano. L’ allestimento, fuori dall’ordinario senza ombra di dubbio, proietta il visitatore nel mondo dei CCCP attraverso ben 25 sale in un percorso che merita almeno due ore di visita. E non si tratta ovviamente di una sola esposizione di cimeli, anzi: si tratta soprattutto di una mostra immersiva, che fa sentire il visitatore parte di quel mondo, più o meno come può accadere durante un concerto o uno spettacolo.     Sono tanti e diversificati gli allestimenti nelle diverse stanze di questa mostra, così come sfaccettato, poliedrico e variegato era il mondo dei CCCP. Un mondo che si è complicato ancora di più dopo la rottura fra Zamboni e Ferretti e le  varie prese di posizione politiche del secondo (mentre invece Zamboni è sempre rimasto fedele alla linea). Così si passa da stanze dove possiamo ammirare cimeli e fotografie dei CCCP, ad altre in cui siamo immersi nella loro musica a tutto volume con altoparlanti che calano dal soffito, o in cui siamo sommersi da proiezioni video delle loro esibizioni o, ancora, dove dobbiamo passare in mezzo a gigantografie dei dirigenti dell’URSS e dei suoi stati satellite mentre siamo avvolti dalle note dell’Inno Sovietico. Perché sì, c’è anche questo ovviamente: la Storia, quella con la S maiuscola, e non potrebbe non essere presente in una mostra dedicata a un gruppo che già nel nome dà una chiara indicazione del proprio indirizzo ideologico. E questo è forse il primo vero impatto che abbiamo quando, nel chiostro principale subito poco dopo l’entrata, vediamo una Trabant accanto a un blocco del Muro di Berlino.     Tutto lascia una sensazione strana, stranissima. Ma emozionante. Per chi ha vissuto quei tempi, c’è sicuramente una punta di nostalgia che si affaccia, soprattutto pensando ai nostri, di tempi, con la musica italiana tendenzialmente appiattita su cliché e falsa provocazione. Difficilissimo pensare a un gruppo oggi che non nasca da una mera logica di mercato. Certo è che si prova anche un brivido pensando a quante analogie ci sono oggi con gli anni ’80, con il ritorno alla minaccia nucleare, al mondo diviso in due blocchi con una Russia antagonista dell’occidente. E allora forse non è un caso che appunto siano tornati i CCCP. E non importa se i nostri sono naturalmente invecchiati, anzi: il messaggio è ancora più potente, tornano da dove avevano finito senza cambiare una virgola, come se nel frattempo non fosse accaduto nulla. Sembra quasi che il messaggio sia che la band è tornata perché sono tornati tempi analoghi a quelli degli anni ’80 ma non c’è nessuno a fare quello che facevano loro, e qualcuno deve pur farlo: i CCCP. E questo conforta coloro che, ai tempi già li seguivano: il punk non è morto, i CCCP non sono morti, e pure i visitatori che sono cresciuti con loro e con la loro musica non si sentono più morti. Si sentono vivi, più vivi che mai come i CCCP. Impossibile rimanere indifferenti.   La mostra è stata prodotta e organizzata dalla Fondazione Palazzo Magnani e dal Comune di Reggio Emilia. La grafica della pubblicazione e i loghi della mostra sono stati creati da Matteo Torcinovich per Interno4 edizioni. Il progetto allestitivo è curato da Stefania Vasques e si arricchisce dei contributi artistici di Arthur Duff, Roberto Pugliese, Stefano Roveda e Luca Prandini; il light design è firmato da Pasquale Mari. Il progetto espositivo è realizzato grazie ai Fondi europei della Regione Emilia-Romagna. Hanno contribuito alla realizzazione della mostra Coopservice e Coop Alleanza 3.0.