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Oscar Wilde: il ritratto di un esteta

– di Gianmarco Caselli –   L’importanza di chiamarsi Oscar Wilde: è questa una delle novità editoriali presentate a Lucca Comics & Games 2024, una novel basata sulla vita del dandy per definizione edita da Becco Giallo. Una biografia, sceneggiata da Tommaso Vitiello e disegnata da Licia Cascione, per i 170 anni dalla nascita dello scrittore e che mira a far conoscere l’uomo Oscar Wilde che, dall’iniziale posizione di brillante ed eccentrico artista, scrittore e poeta al centro dell’attenzione e di successo, sprofonda col passare del tempo, nei propri tormenti e nelle proprie angosce senza mai tuttavia perdere le proprie convinzioni. Abbiamo intervistato gli autori Tommaso Vitiello e Licia Cascione allo stand di Becco Giallo a Lucca Comics & Games 2024.     Come mai proprio un lavoro su Oscar Wilde? Tommaso Vitiello: Di questo autore molte persone conoscono solo i testi teatrali più famosi o gli aforismi. La cosa che mi ha spinto a scrivere di lui è che tante persone sanno poco della sua vita. E la sua vita non è stata per niente facile.   Quali sono le particolarità della vita di Wilde che ti hanno incuriosito maggiormente? T.V.: Sapevo che dopo l’università Wilde aveva tenuto una serie di conferenze negli Stati Uniti. Gli americani , che si sono visti arrivare questo uomo alto un metro e 90, si sono sentiti in un certo qual modo minacciati e lo hanno sfidato a bevute, a box e a poker. Il “problema” è che sfidarono una persona molto intelligente che riusciva a giocare molto bene a poker, che se la cavava altrettanto bene a boxer grazie anche alla sua imponente statura e alle sue grandi mani e che era abituato, da buon irlandese a bere. Questa cosa mi ha fatto molto ridere.   Hai attinto a qualcosa di particolare per la realizzazione di questa storia? T.V.: Wilde ha scritto principalmente commedie e Salomè è stata una delle sue poche tragedie. Ciò che mi è parso interessante è il motivo per cui non è riuscito a metterla in scena in Inghilterra in quanto in questo periodo, durante il regno della regina Vittoria cioè, era difficile rappresentare un testo teatrale che ha come oggetto una donna che balla per ottenere qualcosa. E alla fine Salomè è andata in scena quando lui era in carcere: quando siamo andati a scrivere quella parte ho spedito a Licia i disegni originali che accompagnavano il libretto dell’opera.   Per quel che riguarda la grafica ci sono state ispirazioni provenute da altre illustrazioni o bozzetti? Licia Cascione: Per quanto riguarda le grafiche no, per costumi e ambienti invece mi sono rifatta molto a illustrazioni dell’epoca per  riproporre lo stile dandy, in particolare anche per quel che riguarda il tratto e i colori. C’è stata una grande ricerca sui costumi e sugli ambienti del tempo.   Avete deciso insieme di scrivere una storia su Wilde o l’idea è partita da uno di voi? T. V.: Sono stato io che ho mandato il progetto a Becco Giallo e subito ci siamo messi a cercare un disegnatore ideale per questo lavoro. Ne abbiamo vagliati diversi e quando ho visto i disegni di Licia ho detto: “Ok, sarà lei a illustrare l’opera.”   La vita di Wilde ha appassionato subito la disegnatrice? L. C.: Ero interessata a fare un lavoro su Wilde in quanto sono una grande appassionata dell’epoca vittoriana. Tuttavia, per quanto ora sia riconosciuto come figura queer, Wilde è pur sempre un uomo della sua epoca, e per alcuni suoi aspetti, dal punto di vista personale, ho inizialmente fatto un po’ di fatica ad approcciarmi a lui.       Tu hai indivudato aspetti di questo autore che hanno poi influito sulla tua visione dell’artista? L. C.: Una delle cose che mi ha colpito di più è che io immaginavo questo uomo gigantesco che cercava sempre di essere al centro dell’attenzione, che sapeva quel che faceva e voleva farlo sapere agli altri. Entrando nella storia e conoscendo così chi è stato accanto a lui, vedere l’influenza che queste persone hanno avuto su di lui è stato molto importante per me.   E questo ha influito sulla stesura grafica? L. C.: Sì, ad esempio all’inizio della storia Wilde indossa vestiti sgargianti che lo pongono al centro della scena in modo teatrale. Andando avanti, più si innamora di Bosie, più assorbe i colori dell’amante, anche lui comincia a vestirsi in azzurro fino a che non ne è completamente assuefatto.    

Con Songs Of A Lost World i Cure ritrovano il suono perduto

– di Gianmarco Caselli –   Finalmente è arrivato. Dopo ben sedici anni e annunci disattesi sull’uscita di uno o addirittura più album, il primo novembre i fan di The Cure hanno potuto ascoltare il nuovo lavoro della band, Songs of a Lost World. L’attesa è stata lunghissima e, quando è stato chiaro che stavolta l’album sarebbe veramente uscito, piena di grandi aspettative. Aspettative alte, altissime, soprattutto dopo che è stato diffuso Alone, il primo singolo, che ha fatto sognare ai fan un altro lavoro alla pari di Disintegration (1989), forse l’album capolavoro della band. Lo stesso Robert Smith vi ha fatto riferimento affermando che voleva ricreare un’atmosfera come in Pornography (1982) e Disintegration.   Diciamo subito che il confronto comunque non regge, Disintegration è e resta irraggiungibile, ma la qualità di Songs of a Lost World cresce ad ogni ascolto e si riallaccia all’album del 1989 per tanti versi: per i testi, per le sonorità e per l’atmosfera generale, e di certo è un gran bell’album: il nostro voto è 9. Consigliamo un ascolto in cuffia o a volume alto con un buon impianto per godere appieno non solo della voce – notevole per l’età – di Smith in ottima forma, ma anche della raffinata ricerca dei suoni che costellano questo album. Vi perdereste degli elementi che fanno comprendere quanto questa opera sia veramente ricercata e complessa, perfetta nel creare un amalgama sonoro che ci avvolga nelle sue spire.   Se si considera poi che dopo le punte toccate dalla band con il già nominato Disintegration (1989) e Wish (1992) gli album successivi (su tutti Wild mood swings del 1996) non sono stati da ricordare, con l’eccezione di Bloodflowers (2000), Songs of a Lost World è una vera e propria boccata di ossigeno per i fan. Ad affiancare Robert Smith sono il fedele Simon Gallup al basso, Roger O’Donnel alle tastiere, Reeves Gabrels alla chitarra e Jason Copper alla batteria.   Songs of a Lost World è per certi versi una summa matura delle punte toccate dalla band fra fine anni ’80 e inizio anni ’90 che ci immerge nel decadentismo imperante dei nostri tempi. Robert Smith e soci hanno infatti voluto non solo riprendere quelle sonorità, ma anche attualizzarle e realizzare un album sincero, senza strizzare l’occhio alle dinamiche del marketing con inserimenti di brani facili e commerciali: si è capito subito dal primo ascolto della intro strumentale del brano di apertura Alone, lunghissima per i canoni musicali del nostro tempo. Proseguendo con l’ascolto godetevi l’apertura armonica di And nothing is forever e lasciatevi cullare da A fragile thing, brano che difficilmente vi toglierete dalla testa. Warsong e Drone:Nodrone invece ci portano improvvisamente in atmosfere più dure che ricordano quelle di Wish. È I can never say goodbye che di nuovo ci proietta nella dimensione onirica prevalente dell’album, mentre la successiva All I ever am ci coinvolge subito con una base ritmica trascinante che  fa venire voglia di non uscire mai da questo disco di cui ci sembra di far parte. Chiude l’album una epica Endsong di ben dieci minuti, devastante per intensità e che chiude il cerchio aperto con Alone.   Le sonorità sono dense ma fresche, non danno assolutamente l’idea di ricalcare qualcosa di già fatto, e danno all’album energia e coerenza. Tutti i brani sono notevolmente ispirati (di mezzo ci sono la perdita dei genitori, del fratello e l’incombere dell’età) e si muovono in atmosfere dark rischiarate da luce lunare che rende il tutto sognante, non opprimente. Una luce lunare rischiara le tenebre dei testi: il disco si doveva intitolare Live from The Moon  e Endsong è stata scritta anche pensando ai cinquanta anni dello sbarco dell’uomo sulla luna. And I’m outside in the dark / Staring at the blood red moon, sono i primi versi del brano conclusivo dell’album.   Songs of a Lost World è un album armonico, non ci sono brani che stridono, tutto fila via con un’atmosfera irreale. I Cure hanno ricreato un mondo sonoro musicale perduto a cui essi in primis avevano dato un sound unico attualizzandolo con uno nuovo che riflette il mondo attuale.   Difficile scegliere quali edizioni comprare: oltre alle versioni standard si può optare per la doppia cassetta che oltre all’album “normale” offre i brani esclusivamente strumentali, o per il triplo cd che, oltre al cd standard propone un dvd blu ray e uno con le versioni strumentali; se andiamo sul vinile possiamo scegliere il doppio vinile half-speed da 180 gr oppure quello bianco, sempre da 180 gr, o quello color marmo. A voi l’ardua scelta. Per la cronaca Smith ha parlato anche di un nuovo album in lavorazione virtualmente finito, e che potrebbe arrivare anche un terzo disco. Ma intanto godiamoci questo.