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La Bandabardò al Capannori Underground Festival

– di Chiara Di Vito – Successo per la Bandabardò protagonista del primo appuntamento del Capannori Underground Festival 2024. L’evento si è tenuto lo scorso 10 novembre al Polo Culturale Artémisia di Tassignano (Capannori) con la presentazione del libro della Bandabardò “Se mi rilasso collasso” (Baldini + Castoldi). Presenti Finaz, Don Bachi e Nuto e lo storico tastierista dei Litfiba, Antonio Aiazzi in veste di co-conduttore della serata insieme a Gianmarco Caselli, direttore artistico del Festival.     «È sempre emozionante – afferma Caselli – vedere al nostro Festival così tante generazioni riunite dalla passione per una band e, soprattutto, per una cultura alternativa a quella proposta dal mainstream. Sono felice di vedere sullo stesso palco Antonio Aiazzi e la Bandabardò, artisti così diversi tra loro uniti da una grandissima passione per la musica».   In apertura i saluti istituzionali dell’Assessora alla Cultura del Comune di Capannori Claudia Berti che ha ribadito l’importanza di una collaborazione fra Comune e Festival, che va avanti da dieci anni.     Al termine della presentazione del libro, il gruppo ha ricevuto il Premio Capannori Underground Festival per la diffusione della cultura Underground e, a seguire, i tre componenti della Bandabardò hanno eseguito a sorpresa alcuni dei brani storici del loro repertorio.       Una serata ricca di aneddoti, curiosità e momenti esilaranti, che hanno permesso al numerosissimo pubblico – la serata era in tutto esaurito – di ripercorrere 30 anni di storia della celebre band fiorentina.  Presenti anche tanti giovani che hanno avuto l’opportunità di conoscere personalmente i musicisti e farsi autografare il libro e i dischi.     Il Capannori Underground Festival proseguirà il 30 novembre alle ore 17.15 al Museo Athena di Capannori con Giovani Visioni Underground, una mostra dei ragazzi e delle ragazze del Liceo Artistico “A. Passaglia” di Lucca che verrà aperta da una performance di CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico.   Due appuntamenti del Festival in programma anche per il 2025. Il primo incontro sarà l’11 gennaio alle ore 17.15 al Polo Culturale Artémisia. Presenti Paolo Archetti Maestri voce e chitarra degli Yo Yo Mundi con la partecipazione di Dome La Muerte. La serata sarà inoltre arricchita dalla proiezione fotografica di Visioni Underground, accompagnata dalla performance di CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico e Enzo Correnti, l’Uomo Carta. Ultimo appuntamento per il 18 gennaio – sempre alle ore 17.15 al Polo Culturale Artémisia – con Andy dei Bluvertigo e la partecipazione di Master Mixo.   Tutti gli eventi del Capannori Underground Festival sono a ingresso libero su prenotazione fino ad esaurimento posti. È possibile prenotarsi scrivendo una mail a associazionevaga@gmail.com.    

La Bandabardò apre il Capannori Underground Festival

Tutto esaurito per la serata di apertura dell’edizione 2024 del Capannori Underground Festival con  Finaz, Nuto e Don Bachi della Bandabardò. “Una band che non ha certo bisogno di presentazioni – afferma Gianmarco Caselli, direttore artistico del Festival – e che negli anni ha fatto e fa ballare nelle piazze migliaia di giovani intrecciando voglia di stare insieme, di divertirsi, con valori e ideali per una società migliore.” La Bandabardò ha una storia che è quasi una fiaba: si è fatta le ossa macinando concerti su concerti, i componenti del gruppo sono quasi una famiglia che ha viaggiato insieme per anni sul furgone spostandosi da un palco all’altro ed è cresciuta e si è fatta notare proprio grazie ai suoi numerosi live prima ancora che sul mercato discografico. È il rapporto con i fan che,  alimentandosi concerto dopo concerto, ha decretato la solidità di un gruppo che con la piazza, con il pubblico, è stato fin dall’inizio legato in un sodalizio quasi immediato e spontaneo. Una band che ha proposto una musica nuova, gioiosa, fresca e viva. La Bandabardò non si è fermata nonostante la triste scomparsa di Erriquez, lo storico cantante del gruppo, una scomparsa improvvisa che ha sconvolto il panorama musicale italiano. La Bandabardò però ha proseguito grazie anche all’amico Cisco Bellotti, e noi l’abbiamo seguita in questa loro nuova storia come vi abbiamo raccontato anche l’estate scorsa nel nostro servizio.     Quello del Capannori Underground Festival evento imperdibile per tutti gli appassionati della band: durante l’incontro che si terrà al Polo Culturale Artemisia (Tassignano-Capannori) i tre componenti del gruppo presenteranno il libro “Se mi rilasso collasso” edito da Baldini e Castoldi. E per l’evento sarà presente, ad affiancare Gianmarco Caselli, direttore artistico del Festival, anche Antonio Aiazzi, lo storico tastierista dei Litfiba che l’anno scorso era presente come ospite insieme a Gianni Maroccolo.   Nel libro sono raccontati i trenta anni di storia della  band nata nel ’93, in anni gloriosi per la musica alternativa italiana. Così la raccontano gli stessi membri della Bandabardò: “Trent’anni di storia, la nostra, fatta di percorsi quasi mai semplici e spesso lontani dalle strade maestre, una storia che si intreccia con gli ultimi trent’anni di questo Paese meraviglioso e contraddittorio e che ci rammenta cosa sono state la musica, la politica, la vita in tour, la gavetta, la discografia e come tutte queste cose sono cambiate con noi, accanto a noi.”   L’ingresso è libero su prenotazione fino ad esaurimento posti scrivendo una mail a associazionevaga@gmail.com. Lo staff invita a prenotare e a mettersi in lista d’attesa nonostante l’evento sia già sold out. Il Capannori Underground Festival è organizzato da V.A.G.A. (Visioni Atipiche Giovani Artisti) con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e del Comune di Capannori in collaborazione con ARCI LUCCA E VERSILIA, Museo Athena, Artemisia, Sistema Museale Territoriale della Provincia di Lucca, Anffas, Il Restauro, Effeottica Lucca e la mediapartenrship di La Settima Base, Riserva Indie e Radio Sankara.

Quando Zio Paperone ispirò Giacomo Puccini…

– di Gianmarco Caselli – Abbiamo letto “Zio Paperone e l’opera inattesa”, la storia scritta da Alessandro Sisti e disegnata da Simona Capovilla sul Topolino n. 3597 come omaggio per il centesimo anniversario di Giacomo Puccini, senza ombra di dubbio l’ultimo grande operista della storia della musica. Mercoledì 30 ottobre la Fondazione “Simonetta Puccini per Giacomo Puccini”, in collaborazione con Panini Comics, ha organizzato un evento speciale all’Auditorium Puccini di Torre del Lago (Viareggio), con le tavole a fumetti della storia in concomitanza con il Lucca Comics & Games. La storia inizialmente sembra incentrata sulla ricerca della partitura del finale di Turandot, l’ultima opera di Puccini appunto rimasta incompiuta. Ma si tratta di un inganno di Zio Paperone per sviare Rockerduck: in realtà il plurimiliardario cerca una fotografia di Paperopoli scattata proprio da Puccini. Una storia breve in cui emergono tanti aspetti del noto operista come la sua passione per le innovazioni tecnologiche. La fotografia era una di queste: ve l’abbiamo raccontata in un altro nostro servizio relativo alla mostra “Qual occhio al mondo”. Puccini fotografo  realizzata dalla Fondazione Centro studi Licia e Carlo Ludovico Ragghianti di Lucca in collaborazione con la Fondazione Simonetta Puccini per Giacomo Puccini di Torre del Lago e il Centro studi Giacomo Puccini di Lucca. La storia di Sisti si conclude con un flashback: il lettore viene portato indietro nel tempo, quando il compositore lucchese si incontrò con Zio Paperone e fu proprio il ricco papero a ispirare Puccini con una sua storia amorosa ai tempi del Klondike da cui prenderà vita La fanciulla del West.     Abbiamo intervistato Alessandro Sisti che ci ha fornito, a corredo di questo servizio, le immagini delle tavole della storia prima di essere colorate e prima che fossero scritti i testi dentro le nuvolette.   Quale è stato il tuo primo contatto con Puccini?   Francamente è passato troppo tempo perché riesca a ricordarmene. In casa la musica era apprezzata e mia madre suonava discretamente il pianoforte, ma io le chiedevo soprattutto brani come Per Elisa di Beethoven, o la Marcia Turca di Mozart, per i quali da piccolo andavo matto, mentre di Puccini il mio preferito era il Coro a bocca chiusa. Al di là delle melodie, ho memorie più nitide di quando iniziai a farmi un’idea di Puccini come personaggio. Risalgono a quand’ero ormai già alle medie e allo sceneggiato Rai interpretato da Alberto Lionello, la cui sigla iniziale mi pare fosse proprio (con mia grande soddisfazione d’allora) quel coro della Butterfly cui accennavo prima.   – Conoscevi la sua passione per le novità tecnologiche o l’hai scoperta studiando il modo di realizzare  questa storia?   La conoscevo, come credo la maggior parte del pubblico, segnatamente per ciò che riguarda la velocità e i motori, o l’innovazione applicata alla diffusione della musica, grazie alla quale è stato fra i primi a veicolare le proprie opere incise su disco. Confesso invece che ignoravo il suo amore per la fotografia. A raccontarmelo è stata Patrizia Mavilla, la direttrice della Fondazione Simonetta Puccini, regalandomi un’informazione preziosa che è divenuta la chiave di volta dell’avventura pubblicata su Topolino.   – Hai un’opera preferita di Puccini?   Potrei dirvene una… e dopo me ne verrebbe in mente un’altra e poi un’altra ancora. La verità è che le preferisco tutte, musicalmente e ancor più per il fatto che Puccini – lo dichiarò lui stesso – con le note riteneva di scrivere teatro e diceva di non saper fare musica senza una storia. Per chi di storie vive, come nel mio piccolo faccio io, è un’affermazione esaltante.     – Molto carino il finale in cui a Puccini viene l’idea di comporre La fanciulla del West ispirandosi a un’avventura amorosa nel Klondike di Zio Paperone. Ci dici come ti è venuta in mente?   È nata ragionando sul fatto che gli anni di Puccini e quelli del giovane Zio Paperone, intento a porre le basi della sua fortuna come cercatore d’oro, riportano alla medesima epoca. Approfondendo quell’intuizione ho trovato una miniera di corrispondenze. I cercatori erano spesso appassionati di musica, una delle poche opportunità di sollievo e d’elevazione nelle loro esistenze, e ne La fanciulla del West molta dell’azione scenica si svolge alla Polka, il saloon della protagonista Minnie, non diverso da quello della Bolla d’Oro di Doretta Doremì frequentato da Paperone. Eccetto il dettaglio che lo sfondo de La fanciulla è quello della Corsa all’Oro californiana anziché quella del Klondike, i conti tornavano, tanto più – tengo a sottolinearlo – considerando che a unirli non è una generica vicenda sentimentale del papero più ricco del mondo, bensì il suo indimenticato e forse unico amore, rievocato addirittura nel 1953 dal suo creatore Carl Barks. Non c’è dubbio che se mai Zio Paperone ne avesse parlato a Puccini, l’avrebbe fatto con accenti adatti a ispirarlo.     – Non è certamente facile ideare una storia originale su Puccini e i paperi. Da quali spunti sei partito?   Per essere sincero è stato più semplice di quanto possa sembrare. Come dicevo, gli ingredienti fondamentali erano già tutti nella realtà storica e non avevo che da ricucinarli in una prospettiva disneyana. La scelta era come servirli: contestualizzandoli integralmente nel passato come ho fatto in altre occasioni, oppure al presente? A farmi decidere sono stati gli scenari di Torre del Lago Puccini e della residenza del compositore, che oggi è la villa-museo a lui dedicata, che mi sono sembrati subito la risorsa più desiderabile per una narrazione anche visivamente ricca e diversa, nella sicurezza che la mia co-autrice Simona Capovilla, che ha disegnato la storia, avrebbe saputo sfruttarli nel modo migliore.   – Non è stata la vostra prima collaborazione, giusto?   Sì, abbiamo lavorato insieme su diverse altre storie. Per me (e spero anche per lei) sono state tutte esperienze gratificanti, perché Simona è un’artista di rango, con un talento per la recitazione dei personaggi e uno splendido senso della scena. In più l’ho scoperta essere anche una musicista e una pucciniana convinta, tanto che

Con Songs Of A Lost World i Cure ritrovano il suono perduto

– di Gianmarco Caselli –   Finalmente è arrivato. Dopo ben sedici anni e annunci disattesi sull’uscita di uno o addirittura più album, il primo novembre i fan di The Cure hanno potuto ascoltare il nuovo lavoro della band, Songs of a Lost World. L’attesa è stata lunghissima e, quando è stato chiaro che stavolta l’album sarebbe veramente uscito, piena di grandi aspettative. Aspettative alte, altissime, soprattutto dopo che è stato diffuso Alone, il primo singolo, che ha fatto sognare ai fan un altro lavoro alla pari di Disintegration (1989), forse l’album capolavoro della band. Lo stesso Robert Smith vi ha fatto riferimento affermando che voleva ricreare un’atmosfera come in Pornography (1982) e Disintegration.   Diciamo subito che il confronto comunque non regge, Disintegration è e resta irraggiungibile, ma la qualità di Songs of a Lost World cresce ad ogni ascolto e si riallaccia all’album del 1989 per tanti versi: per i testi, per le sonorità e per l’atmosfera generale, e di certo è un gran bell’album: il nostro voto è 9. Consigliamo un ascolto in cuffia o a volume alto con un buon impianto per godere appieno non solo della voce – notevole per l’età – di Smith in ottima forma, ma anche della raffinata ricerca dei suoni che costellano questo album. Vi perdereste degli elementi che fanno comprendere quanto questa opera sia veramente ricercata e complessa, perfetta nel creare un amalgama sonoro che ci avvolga nelle sue spire.   Se si considera poi che dopo le punte toccate dalla band con il già nominato Disintegration (1989) e Wish (1992) gli album successivi (su tutti Wild mood swings del 1996) non sono stati da ricordare, con l’eccezione di Bloodflowers (2000), Songs of a Lost World è una vera e propria boccata di ossigeno per i fan. Ad affiancare Robert Smith sono il fedele Simon Gallup al basso, Roger O’Donnel alle tastiere, Reeves Gabrels alla chitarra e Jason Copper alla batteria.   Songs of a Lost World è per certi versi una summa matura delle punte toccate dalla band fra fine anni ’80 e inizio anni ’90 che ci immerge nel decadentismo imperante dei nostri tempi. Robert Smith e soci hanno infatti voluto non solo riprendere quelle sonorità, ma anche attualizzarle e realizzare un album sincero, senza strizzare l’occhio alle dinamiche del marketing con inserimenti di brani facili e commerciali: si è capito subito dal primo ascolto della intro strumentale del brano di apertura Alone, lunghissima per i canoni musicali del nostro tempo. Proseguendo con l’ascolto godetevi l’apertura armonica di And nothing is forever e lasciatevi cullare da A fragile thing, brano che difficilmente vi toglierete dalla testa. Warsong e Drone:Nodrone invece ci portano improvvisamente in atmosfere più dure che ricordano quelle di Wish. È I can never say goodbye che di nuovo ci proietta nella dimensione onirica prevalente dell’album, mentre la successiva All I ever am ci coinvolge subito con una base ritmica trascinante che  fa venire voglia di non uscire mai da questo disco di cui ci sembra di far parte. Chiude l’album una epica Endsong di ben dieci minuti, devastante per intensità e che chiude il cerchio aperto con Alone.   Le sonorità sono dense ma fresche, non danno assolutamente l’idea di ricalcare qualcosa di già fatto, e danno all’album energia e coerenza. Tutti i brani sono notevolmente ispirati (di mezzo ci sono la perdita dei genitori, del fratello e l’incombere dell’età) e si muovono in atmosfere dark rischiarate da luce lunare che rende il tutto sognante, non opprimente. Una luce lunare rischiara le tenebre dei testi: il disco si doveva intitolare Live from The Moon  e Endsong è stata scritta anche pensando ai cinquanta anni dello sbarco dell’uomo sulla luna. And I’m outside in the dark / Staring at the blood red moon, sono i primi versi del brano conclusivo dell’album.   Songs of a Lost World è un album armonico, non ci sono brani che stridono, tutto fila via con un’atmosfera irreale. I Cure hanno ricreato un mondo sonoro musicale perduto a cui essi in primis avevano dato un sound unico attualizzandolo con uno nuovo che riflette il mondo attuale.   Difficile scegliere quali edizioni comprare: oltre alle versioni standard si può optare per la doppia cassetta che oltre all’album “normale” offre i brani esclusivamente strumentali, o per il triplo cd che, oltre al cd standard propone un dvd blu ray e uno con le versioni strumentali; se andiamo sul vinile possiamo scegliere il doppio vinile half-speed da 180 gr oppure quello bianco, sempre da 180 gr, o quello color marmo. A voi l’ardua scelta. Per la cronaca Smith ha parlato anche di un nuovo album in lavorazione virtualmente finito, e che potrebbe arrivare anche un terzo disco. Ma intanto godiamoci questo.      

Capannori Underground Festival 2024 Lucca Underground Festival 2024

Capannori Underground Festival 2024: ci siamo!

Al via Capannori Underground Festival 2024 con quattro eventi e tanti nomi di primo ordine della musica alternativa italiana.     Quest’anno gli appuntamenti saranno scaglionati in due mesi: due a novembre 2024 e due a gennaio 2025. Oltre agli ospiti torneranno anche quest’anno il noto conduttore radiofonico di Radio Capital, Master Mixo, e Dome La Muerte nella veste ci co-conduttori; a loro si aggiunge anche Antonio Aiazzi, storico tastierista dei Litfiba, già ospite del Festival edizione 2023. Si inizia  il 10 novembre con Finaz, Nuto e Don Bachi della Bandabardò che presenteranno il libro sulla storia della band, “Se mi rilasso collasso” con la co-conduzione di Aiazzi. Si prosegue il 30 novembre con una mostra dei ragazzi del Liceo Artistico “A. Passaglia” di Lucca introdotta da una performance di CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico, costola musicale del Festival. Si riprende l’11 gennaio 2025 con Paolo Archetti Maestri degli Yo Yo Mundi e la co-conduzione di Dome La Muerte . La serata sarà inoltre arricchita dalla consueta proeizione fotografica di Visioni Underground accompaganta dalla performance di CRP Collettivo Rivoluzionario Protosonico e Enzo Correnti, l’Uomo Carta. Si chiude il 18 gennaio con Andy dei Bluvertigo e la co-conduzione di Master Mixo. Tutti gli eventi saranno condotti da Gianmarco Caselli, direttore artistico del Festival; la locandina è realizzata come sempre negli ultimi anni, da Enrica Giannasi. Tutti gli appuntamenti si tengono ad Artemisia alle 17.15 con l’eccezione di quello del 30 novembre che si terrà ad Athena. L’ingresso è libero su prenotazione fino ad asaurimento posti scrivendo una mail a associazionevaga@gmail.com. Il Capannori Underground Festival è organizzato da V.A.G.A. (Visioni Atipiche Giovani Artisti) con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e del Comune di Capannori in collaborazione con ARCI LUCCA E VERSILIA, Museo Athena, Artemisia, Sistema Museale Territoriale della Provincia di Lucca, Anffas, Il Restauro, Effeottica Lucca e la mediapartenrship di La Settima Base, Riserva Indie e Radio Sankara.

El Santo: la colonna sonora dei dannati del West

– di Gianmarco Caselli El Santo, un disco per spiriti ribelli e solitari, per chi combatte contro le ingiustizie e sta sempre dalla parte del più debole; e la potente copertina di Cristina Rovini evoca in un attimo proprio tutte queste suggestioni proiettandoci nel far west e nei suoi spazi sconfinati.     Stiamo parlando del secondo album di Dome La Muerte E.X.P., il gruppo spaghetti western del mitico Dome La Muerte, uscito per la Go Down Records. E non stupisce che El Santo faccia riferimento a eroi che combattono contro le ingiustizie, a eroi solitari fuori dal sistema se si pensa a Dome La Muerte, indubbiamente il personaggio musicale più importante della storia musicale underground italiana che – fra i vari riconoscimenti – ha ricevuto nel 2019 il Premio Capannori Underground Festival 2019 per la diffusione della cultura Underground.     El Santo non è un disco come gli altri anche dal punto di vista concettuale dal momento che è concepito come una colonna sonora di un film che non esiste e, al tempo stesso, sembra una Spoon River del Far West: ogni singolo brano è infatti ispirato a un personaggio, un luogo o una situazione. Con questo album prosegue così la coraggiosa avventura di Dome La Muerte E.X.P. a otto anni dall’uscita del primo, Lazy Sunny Day, ma sempre con la stessa formazione. Va ricordato che fra il primo e il secondo. di Dome La Muerte E.X.P. è uscito in digitale un singolo per l’etichetta Cinedelic che ha prodotto il primo disco insieme alla GODown.     Abbiamo intervistato Dome La Muerte proprio riguardo a questo nuovo album.   Quali sono le differenze sostanziali rispetto al primo album, Lazy Sunny Day? Il primo album mescolava sonorità spaghetti western con brani anche cantati che si rifacevano sia alla psichedelia anni ’70, sia ai raga della musica indiana e infatti c’è molto utilizzo del sitar; la particolarità era quella di mescolare la psichedelia con i suoni da canyon. Questo invece – prodotto dalla GoDown records – è strutturato come una vera e propria colonna sonora. Ci sono dei temi, delle tracce che hanno forma canzone anche se sono tutte strumentali. Unica eccezione, a questo proposito, è la bonus track che è presente solo su vinile, registrata con Hugo Race e Max Larocca. Ci sono brani che durano più di tre minuti come altri che durano un minuto e poco più, con temi che ritornano anche durante l’album   Avevi in mente un film in particolare quando hai concepito questo album? L’album me lo sono inventato nella testa: tutti i film spaghetti western, anche quelli di serie zeta, hanno una cosa che non capivo quando avevo 13 anni e li vedevo al cinema del paese: hanno tutti un risvolto sociale e politico al di là del fatto che all’epoca venivano presi come film di puro svago e divertimento. Invece nelle trame c’è sempre il prepotente, l’eroe che lo combatte, che si scontra contro il potere, contro le ingiustizie e sta sempre dalla parte del più debole. Riflettono il periodo storico della fine anni ’60 e inizio ’70 in cui c’era una rivoluzione nelle strade; era un periodo di grandi sogni di cambiamenti che si rifletteva in questo tipo di cinema come nell’horror e nella fantascienza. Erano modalità per fare una fotografia della società. Per questo motivo ho preso questo spunto dai film spaghetti western e ho creato una colonna sonora. Ogni brano è dedicato a un personaggio, un attivista, un nativo americano.   A questo proposito c’è una dedica particolare. Sì, sul retro della copertina c’è scritto Free Leonard Peltier: è un prigioniero politico nativo americano, una sorta di Nelson Mandela degli indiani di America per il quale chiediamo la liberazione dagli anni ’80. Sul retro di copertina abbiamo riportato anche un indirizzo per avere informazioni utili per supportare la richiesta della sua liberazione.     Ci sono anche brani dedicati non solo a personaggi. Una situazione cui è dedicato un brano è l’ultimo grande massacro dei nativi americani a fine ‘800. Ma nello stesso posto è rinata la resistenza indiana. È un luogo simbolo. Ogni brano è un film. Ma come ordinare i brani lo avevo in mente ancor prima di cominciare l’album. È nata la storia prima della musica.   Musicalmente chi ha scritto i brani? I brani li ho scritti io, poi ogni componente del gruppo ci mette del suo perché sono musicisti che hanno una grande cultura musicale. Alcuni brani sono firmati con il tastierista Luca Valdambrini.   Ti piace Tex Willer? Lo leggevo. Da piccolo mi piaceva anche se non tutto. Mi piaceva di più Zagor. Anche Ken Parker. C’è un brano, Long Rifle, che è dedicato proprio a Ken Parker: è l’unico personaggio immaginario dell’album, tutti gli altri sono veri. Uno è dedicato a Gian Maria Volontè.   Esistono altri gruppi spaghetti western? In California ce ne sono.   Quando e come hai iniziato a pensare di fare un gruppo spaghetti western? Sonorità del genere le inserivo già nei primi dischi con i Not Moving, con chitarre “morriconiane”: mi è sempre piaciuta quel tipo di sonorità. Già nel mio primo disco c’erano alcuni pezzi dark blues o stile spaghetti western, però con un po’ di psichedelia. Poi tutte le band che avevo, anche i Diggers, avevano alla fine almeno un pezzo spaghetti western. Ho pensato che non potevo massacrare tutti i gruppi in cui suonavo con questa storia, dovevo fare un gruppo dedicato esclusivamente a queste sonorità.   Che tipo di riscontro ha una band con sonorità così particolari? Abbiamo avuto più recensioni e passaggi radio all’estero che in Italia, dai resoconti che mi sono arrivati. Che la band sarebbe stata molto di nicchia, lo sapevo già in partenza. Mi sono meravigliato quando ci ha notato Capossela e ci ha invitato a Sponz Fest con migliaia di persone di pubblico. Quando il pubblico ci vede ci riempie di complimenti, tutti apprezzano l’originalità. È comunque uno spaghetti western distorto, gli abbiamo dato il nostro suono con strumenti vintage.   Due

CCCP – Tour alla conclusione: cosa accadrà dopo?

– di Gianmarco Caselli –   Con la data del 27 agosto al Festival Settembre Prato è Spettacolo, organizzato da Fonderia Cultart in collaborazione con il Comune di Prato, rimane un’ultima data – a Mantova il 29 agosto – per il tour dei CCCP Fedeli alla Linea: “In fedeltà la linea c’è.”. Un tour che abbiamo seguito fin dalla sua prima epica data il 21 maggio a Bologna con quasi novemila persone ad assistere allo storico ritorno sulle piazze italiane della band simbolo del punk italiano. Una reunion preceduta dall’imponente mostra ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia sulla storia del gruppo.   Il ritorno dei CCCP, che si erano sciolti nel 1990 con quattro album all’attivo che hanno segnato indelebilmente la storia del punk italiano, è stato tanto atteso quanto incredibile.     Il tour ha avuto un successo strepitoso, e forse è andato anche oltre le previsioni del gruppo stesso, accompagnato da un merchandising notevole, nonché dalla pubblicazione di un nuovo album, Altro che nuovo nuovo: il primo live dei CCCP risalente al 1983. Quello che sicuramente ha funzionato è stato vedere sui palchi un gruppo vivo, non l’imitazione di se stesso: chi è stato ad almeno una data del tour, ha visto i CCCP, con Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur, affiatati e coinvolgenti come se non ci fosse stata una pausa lunga più di trenta anni.   La storia dopo i CCCP la conosciamo tutti: nell’ultimo disco del 1990, Epica Etica Etnica Pathos erano entrati nella formazione alcuni ex Litfiba come Gianni Maroccolo e lo storico batterista Ringo De Palma (per la cronaca sarà l’unico album dei CCCP con una batteria vera poi, ultimato l’album, Ringo purtroppo lascerà la nostra valle di lacrime) e da questa formazione “allargata” con ben otto musicisti, sciolti i CCCP, nacquero i CSI – Consorzio Suonatori Indipendenti. Con la clamorosa fuoriuscita di Zamboni e lo scioglimento dei CSI, nasceranno i PGR Per Grazia Ricevuta e, in un lancinante e inesorabile gioco al massacro di sottrazione di componenti dalla formazione, i PG3R costituiti solo da Ferretti, Maroccolo e Giorgio Canali.     In ogni caso, i CSI non erano i CCCP: questi non esistevano più dal 3 ottobre del 1990, data della riunificazione tedesca.  Un’assenza che sembrava definitiva, durata più di trenta anni e durante la quale, finiti anche i CSI e i PGR, soprattutto Zamboni e Ferretti hanno proseguito con le loro carriere soliste. A questo proposito, se vi piacciono le sonorità alla CSI, se non lo avete ancora fatto ascoltate La mia patria attuale, album solista di Zamboni del 2022, e rimarrete piacevolmente sorpresi. Non mancano le polemiche ovviamente, per i prezzi dei biglietti e del merchandising, ma del resto i CCCP sono sempre stati in grado di sollevarle, a partire da quando firmarono il contratto con la Virgin che fu sicuramente determinante nel proiettare il gruppo in un’orbita meno di nicchia ma che – allo stesso tempo – sollevava malumori fra i fan duri e puri della scena alternativa. Per non parlare, ovviamente, delle prese di posizione politiche e religiose di Ferretti. Ma del resto il punk è anche questo, provocazione: basti pensare ai Sex Pistols con Sid Vicious che ostentava la svastica, al contratto con la EMI, al Filthy Lucre Tour (il tour reunion dichiaratamente fatto a scopo di lucro). E comunque tutto ciò ha permesso di far conoscere al grande pubblico un gruppo, i CCCP, con una musica completamente nuova per il panorama musicale italiano, e unico anche per i testi e le performance di Annarella e Fatur. Sul palco la band per il tour ideato da Musiche Metropolitane è stata accompagnata da Luca Rossi, Simone Filippi, Ezio Bonicelli, Simone Beneventi e Gabriele Genta   Adesso manca la data di Mantova per chiudere il tour.   La domanda fatidica è cosa accadrà dopo.   Se da una parte molti immaginano che venga pubblicato un disco live testimonianza di questo tour, quello che tutti i fan sperano veramente è che la band non scompaia nuovamente (e definitivamente) e che riprenda la propria attività realizzando magari un nuovo album di inediti. Una speranza forse esagerata, ma a questo punto tutto è possibile.    

Nuova data a Prato per il tour dei CCCP

– di Gianmarco Caselli –   Si aggiunge a Prato una nuova data per il tour dei CCCP Fedeli alla Linea il 27 agosto prossimo nella programmazione del Festival Settembre Prato è Spettacolo. Un ritorno alla grande, quello della band icona del punk italiano, con un tour che è già storia, iniziato con l’ormai leggendaria data a Bologna del 21 maggio scorso.   Un tour, quello dei CCCP, che non è un’operazione nostalgica ma un vero e proprio evento che dà una scossa alla stagnante musica italiana. La formazione è al completo, quello che per i fan sembrava un sogno irrealizzabile è diventato incredibilmente realtà: Giovanni Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Danilo Fatur e Annarella Giudici danno voce non solo alla generazione che li ha visti in auge negli anni ’80, ma anche alle nuove leve che non vogliono omologarsi alla musica mainstream.     Sul palco di Piazza Duomo a Prato i CCCP daranno vita a un evento che va quindi oltre il tradizionale concetto di concerto grazie alle performances di Annarella e Danilo Fatur, coinvolgenti e instasncabili. In scaletta i grandi classici della band, alcuni dei quali rivisitati, da 1964-1985 Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età del 1985 a Epica Etica Etnica Pathos del 1990. Il Festival Settembre Prato è Spettacolo, è organizzato da Fonderia Cultart in collaborazione con il Comune di Prato.    

Yo Yo Mundi

La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi

– di Chiara Venturini –   La musica collettiva e resistente degli Yo Yo Mundi  Intervista con Paolo Enrico Archetti Maestri   Yo Yo Mundi: uno dei tanti gruppi emersi nei primi anni ‘90, gli ultimi momenti di gloria della musica alternativa italiana; nati in un periodo in cui appunto tutto sembrava possibile e la creatività sprizzava da tutte le parti, gli Yo Yo Mundi proseguono tuttora la loro attività musicale con tenacia e passione, tra collettivismo e impegno. Abbiamo intervistato Paolo Enrico Archetti Maestri, il cantante, chitarrista e portavoce del gruppo. Gli Yo Yo Mundi, una realtà degli anni ‘90 che va avanti con continuità senza mai fermarsi. Te lo saresti mai aspettato? Lo abbiamo voluto fortemente ed è così ancora oggi, anzi oggi più che mai! Quando io e gli altri componenti degli Yo Yo Mundi ci siamo messi insieme, dissi loro che il mio sogno era sempre stato quello di scrivere canzoni e di suonare da professionista (avevo già sfiorato questa possibilità con due band). Il gruppo nasce con  Eugenio Merico (batterista), praticamente subito abbiamo coinvolto Andrea Cavalieri (bassista), e dopo un anno di prove e composizione nella band è entrato Fabio Martino (fisarmonica e tastiere), all’epoca quindicenne. Questa è la formazione originaria degli Yo Yo, il nostro compleanno cade il 5 marzo 1989, in occasione del nostro primo live in quattro. Abbiamo subito avuto la percezione che poteva funzionare, perché noi quattro funzionavamo prima di tutto come persone e poi anche come musicisti, ognuno con la propria peculiarità, ma con la grande attitudine di aiutarci, sempre. E poi perché avevamo gli occhi che brillavano quando si parlava di musica. Infine ci voleva coraggio, spensieratezza, tenacia, determinazione e tanta voglia di emergere e a noi non mancava nulla di tutto questo. Ci siamo fatti i primi anni ‘90, con dei semplici demo e con quelli abbiamo ottenuto recensioni su diversi giornali nazionali (all’epoca c’erano tanti giornali specializzati e quasi tutti avevano uno spazio dedicato alla musica indipendente e ai demotape). E poi suonavamo ovunque senza avere neppure un disco, ma solo una grande intraprendenza e parecchia faccia tosta. Ed Eugenio già all’epoca si dimostrava abilissimo a trovare date e organizzare le continue trasferte.   Erano altri tempi, altre situazioni, contesti molto diversi da quelli in cui viviamo oggi. Erano situazioni in cui ci si doveva adattare a tutte le cose più pazzesche e bizzarre ma allo stesso tempo creative perché ci permettevano di crescere e diventare più abili e potenti ogni volta che riuscivamo a suonare da qualche parte (facevamo anche tutti i concorsi possibili vincendone diversi, era molto istruttivo parteciparvi perché spesso c’erano impianti belli e un pubblico vergine, non quello delle solite birrerie, c’era, all’epoca molta curiosità e molta disponibilità da parte del pubblico). A proposito di situazioni bizzarre… A volte non c’era neppure il palco e ricordiamo certi impianti audio luci… davvero spaventosi!! A un certo punto avevamo un po’ esaurito birrerie e pub in cui suonare e non ci piacevano neppure più tanto. Ci mancava qualcosa, allora abbiamo cominciato a suonare in strada e siamo arrivati anche in Francia, prima la Costa Azzurra e poi addirittura quindici giorni a Parigi, mantenendoci quasi completamente con quello che ci offrivano per strada mentre suonavamo le nostre canzoni e quelle di Paolo Conte (che anni dopo definì “selvatica” la nostra musica!). Quando siamo tornati ci siamo guadagnati dei palchi più importanti. Non avevamo letteralmente più paura di niente. Nel ‘91 abbiamo realizzato un album completamente autoprodotto intitolato “Nuovi oggetti di culto”, un disco che non è mai uscito perché noi volevamo fortemente essere prodotti da Gianni Maroccolo (Litfiba, CSI) e riuscimmo grazie a un amico giornalista, Marco Baratti, a incontrarlo e nacque immediatamente una simpatia, oltre a stima reciproca. Lui preferiva, giustamente, lavorare da zero con noi e le registrazioni acerbe di “Nuovi oggetti di culto” diventarono vecchie e inutili in un battibaleno. Con lui abbiamo realizzato prima un demo con alcuni inediti e poi, finalmente, l’anno successivo, cinque anni dopo la nascita del gruppo abbiamo registrato e dato alle stampe il primo album ufficiale del gruppo.  Quanto sono rimasti gli Yo Yo Mundi di un tempo? Quanto e come sono cambiati? I Litfiba dicevano: “Siamo cinque dita della stessa mano che sul palco si trasformano in pugno.” Noi eravamo in quattro e abbiamo voluto assolutamente trovare il quinto Yo Yo. Il desiderio si è materializzato nella persona di Fabrizio Barale (chitarra), che era l’assistente di studio dove registrammo l’album “Percorsi di musica sghemba” (Columbia – Sony, 1996). Finalmente anche noi potevamo diventare un pugno chiuso! Questa formazione a cinque è durata fino al 2013, poi Fabri cominciò a essere meno presente perché aveva cominciato a fare tour con l’amico Ivano Fossati (che fu nostro ospite ne “L’Impazienza”, 1999 e scrisse per noi la canzone “Il sud e il nord” e noi Yo Yo fummo ospiti nel suo album “La disciplina della terra”). Poi anche Fabio è andato a vivere in Svizzera (suona con i Vad Vuc, grande band ticinese!), la distanza e gli impegni, lavorativi e familiari, hanno  limitato assai la frequentazione artistica e così nel 2013 ci siamo trasformati in un collettivo. Fabio inizialmente è stato affiancato e poi sostituito da Chiara Giacobbe, violinista e cantante con noi da undici anni. A seguire abbiamo ospitato Simone Lombardo, suonatore di strumenti etnici che è a tutti gli effetti uno Yo Yo ad honorem. Così come Dario Mecca Aleina il nostro ingegnere del suono e Daniela Tusa l’attrice che collabora con noi da quasi dieci anni o ancora Ivano A. Antonazzo che non suona, ma è un artista che si occupa delle copertine degli album, dei video, delle fotografie.   Ci siamo trasformati in un collettivo di circa una decina di persone che come una fisarmonica si apre e si chiude a seconda delle esigenze del momento e dei progetti. In qualche modo abbiamo ovviato così ad uno scioglimento che non è mai avvenuto, ci siamo tenuti insieme con un filo tanto sottile, quanto resistente.